Disastri e terrorismo, fake news e parole ostili.
Le situazioni d’emergenza ai tempi dei Social Media sono molto più partecipate rispetto ad anni fa, con una comunicazione pluralizzata in maniera estrema.
Basti pensare ai vari #jesuis, alle notizie di nuovi attacchi terroristici che in pochi minuti corrono sulle piattaforme prima che nei media ufficiali, alle dirette dei citizen-journalists da Aleppo per testimoniare la Guerra in Siria.
In qualche modo, il Web 3.0 ha saputo inglobare particolari aspetti dell’esperienza umana, adattandosi con trend, attivismo, hashtag, tanto da ispirare nuove funzionalità dei social.
Facebook ha sviluppato l’opzione di segnalazione nelle emergenze.
Twitter è uno dei mezzi più utilizzati per monitorare terremoti e allerte meteo.
WhatsApp ha permesso ai bambini sepolti nella scuola crollata a Città del Messico di contattare i soccorsi.
Sono numerose le associazioni e gli enti di sicurezza che hanno messo a frutto la potenzialità informativa offerta dai social network, con reti di supporto e comunicazione della prevenzione.
Ma bastano le buone intenzioni a garantire una comunicazione oggettiva?
La questione è riemersa pochi giorni fa, nell’anniversario degli attentati di Parigi.
Linea Venezia-Parigi, 13 Novembre 2015, ore 22 circa.
Mi trovo a bordo del treno notturno diretto in Francia, in compagna di un’amica. Suona il cellulare, è mia madre e mi parla con tono concitato.
“A Parigi sta succedendo di tutto, sembra grave. Siete in treno?“, la sento chiedere.
La rassicuro. “Magari stanno esagerando, sai te se è davvero terrorismo o se stiano solo dando notizie veloci?”
Nel tempo di cinque minuti da quella telefonata, sono sommersa di messaggi, commenti sul profilo, segnalazioni sotto le foto, gente che mi dà informazioni contrastanti, non richieste. Mi ricontatta perfino un istruttore di scuola guida che non ho sentito per 7 anni, su Messenger.
Da Parigi a Londra, da New York a Berlino, nell’era dei Social Media le informazioni e la curiosità corrono sulle tastiere, spingendo ognuno a dare un’opinione o lasciare un commento su quello che sta accadendo.
Perfino io ho voluto scrivere a riguardo su Facebook, dopo un’ora di segnalazioni, nella notte tra il 13 e il 14 novembre 2015, mentre si susseguivano notizie sulla strage al Bataclan e sugli altri attacchi sparsi in città.
Ho calibrato le parole, sperando bastassero per convincere la gente a smettere di contattarmi e cercare di fermare, nel mio piccolo, il dilagare di un panico disinformato – perché questo si ottiene, quando troppe notizie incerte si sovrappongono e le persone iniziano a elaborare teorie, supposizioni, previsioni.
Ha funzionato? Neanche per sogno.
I movimenti miei e della mia compagna di viaggio sono stati quasi scandagliati, con un vivido interesse verso la nostra esperienza in prima persona del dopo-attacco.
La dinamica è nota ed esiste dall’avvento dei talk show televisivi, ricchi di opinionisti più emotivi che competenti.
Lo strumento, tuttavia, è cambiato ed è più plurale che mai. Non a caso, si parla del fenomeno di sovraesposizione ai social media: siamo continuamente interconnessi con il mondo, con una rete che ci influenza e ci coinvolge, nel bene e nel male.
La partecipazione estrema è la differenza fondamentale tra gli attentati come quelli dell’11 Settembre e gli attacchi dell’epoca post-Facebook.
Flash-forward da Parigi a Londra, dove ho lavorato da marzo ad agosto 2017, in qualità di Giornalista e Social media manager.
Di paura e terrorismo avevo già parlato in altro blog, proprio mentre abitavo nella Capitale.
In quei mesi, su suolo britannico hanno avuto luogo quattro diversi attacchi terroristici, tre a Londra e uno a Manchester, corredati da svariati falsi allarmi.
Lo scenario di Parigi si è ripetuto, con nuovi messaggi, nuove conversazioni e, soprattutto, domande ricorrenti: “Ma com’è il clima? Ma secondo te? Ma è vero che…”
L’informazione diretta è utile, ma se non guardata nel complesso rimane soggettiva e isolata: il mio punto di vista non fa eccezione, per quanto in un momento mi stia occupando di giornalismo e mi possa dedicare alla cronaca dei fatti.
Il cordoglio partecipato degli attacchi di Londra ha fatto scalpore e ha creato confusione sia in chi lo ha vissuto direttamente, sia da chi ha osservato le miriadi di discussioni sul tema, magari obiettive, magari calibrate per fomentare la polemica.
Mai dare per scontata la prospettiva da cui si osserva un evento, soprattutto quando si utilizzano i mass media e i social come “fonti“.
I Talk-show, Facebook o Twitter non sono fonti, bensì aggregatori, puri raccoglitori di condivisioni, con contenuti che possono diventare virali a prescindere dalla loro veridicità.
In men che non si dica, strumenti neutrali come le piattaforme digitali assumono connotati negativi o positivi a seconda delle parole che si scelgono, nonché delle reali intenzioni di chi comunica.
A quale comunicazione affidarsi, quindi?
Come evitare notizie infondate, generalizzazioni e parole dannose?
La sfida reale è contrastare una comunicazione errata, senza fonti e basata su malcontenti di varia natura, soprattutto quando sono coinvolte questioni ideologiche e di sicurezza comune.
Un aiuto viene offerto da iniziative di impegno a un giornalismo migliore, tra cui il lavoro svolto da Valigia Blu, che si è anche occupata di riassumere le linee guida sulla comunicazione mediatica riguardo gli eventi terroristici (vedi l’immagine sottostante).
Sono risposte universalmente valide? Con la rapida e continua evoluzione dei social network, difficile a dirsi.
Le buone pratiche, tuttavia, sono sempre un punto di partenza.
Serve impegnarsi ad una comunicazione fondata, che usi parole non ostili e sia priva di preconcetti e stereotipi dannosi. Con la partecipazione dei singoli, si crea un circolo virtuoso che controbilancia tanto la paura, quanto le fantomatiche fake news.
Quindi, rimbocchiamoci le maniche.